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I primi capitoli tradotti in italiano da Maddalena Zancato del mio romanzo finalista del Premio Planeta "Il Riposo delle terra durante l'inverno", la dittatura militare argentina attraverso lo sguardo di una bambina su Sdiario.
“La tirannide totalitaria non si edifica sulle virtù dei totalitari, bensì sugli errori dei liberali”
Albert Camus
“La tirannide incoraggia la stupidità.”
Jorge Luis Borges
1968. In cammino
1.
I bernoccoli maleodoranti di Clelia determinarono la nostra reciproca antipatia. Due piccole colline che spuntavano tra i capelli neri e lisci. Due protuberanze brillanti, con la lucentezza tipica dei liquidi strani che filtrano dal corpo, furono responsabili del nostro definitivo allontanamento. Da una parte c’eravamo noi – le mie compagne e io – che condividevamo giochi e merende, dall’altro Clelia, sempre da sola, nell’ombra. Lasciavamo correre la fantasia e immaginavamo che nella sua testa ci fossero dei vermi, la circondavamo sfrontatamente per ispezionarla da vicino e ci tappavamo il naso con fare antipatico perché la puzza non ci invadesse, mentre lei rimaneva imperturbabile, inespressiva, impassibile. La immagino, anni dopo, con la stessa espressione immutabile quando decise di non dire il mio nome.
Al tempo frequentavamo la prima elementare in una scuola privata religiosa femminile. Il primo giorno, per qualche ragione incomprensibile, la maestra ci chiamò una per una accanto a sé per chiederci il nome dei nostri genitori, la loro professione e se avessimo fratelli. Così sapemmo che il padre di Clelia era un tecnico che vendeva attrezzature mediche e sua madre “faceva i conti in un ufficio”, come disse lei stessa balbettando. Clelia aveva una sorellina più piccola, molto più sveglia e scaltra di lei, si diceva, bionda e con la carnagione chiara, al contrario di lei che aveva i capelli corvini e la pelle scura. Mia madre conosceva i suoi genitori, nel modo in cui si conoscono gli adulti: un saluto e niente di più. A volte, si incrociavano e borbottavano un “Buongiorno”. I suoi genitori avevano la pelle chiara come la figlia piccola. La mamma sosteneva che Clelia fosse adottata e la figlia piccola “vera”; considerava dunque Clelia una figlia falsa. Papà invece non li conosceva, lui non conosceva mai nessuno e chiedeva sempre «Chi è?». Papà non sapeva mai di chi si stesse parlando e non gli importava molto saperlo. Lavorava tutto il giorno in clinica, guardando dentro la bocca dei suoi pazienti. Mia sorella e io avevamo denti molto puliti e bianchi (oserei dire i più bianchi della classe). Papà era solito riconoscere e valutare le persone sulla base dei loro denti. Credo fosse per questo che i genitori delle mie amiche non le portavano da lui, perché avrebbe saputo la verità sui loro denti, sulle loro abitudini igieniche e alimentari e tanti altri segreti di famiglia che si nascondono nella bocca delle persone. Papà non esaminò mai i denti di Clelia e ignorava allora che anni dopo avrebbe rincontrato suo padre.
I bernoccoli di Clelia comparvero pochi mesi dopo l’inizio della scuola, in autunno, quasi inverno, perché indossavamo già cappotti pesanti, berretto e sciarpa. Prima dei bernoccoli, il terzo giorno di scuola, Clelia si fece notare per un altro motivo. Eravamo concentrate a copiare sui nostri quaderni il giorno e il mese che la signorina Susana scriveva sulla lavagna. La data era accompagnata da una previsione del tempo: il disegno del sole (☼) o della nuvola (☁) o della pioggia (☂) adornavano la parte superiore della pagina. Mi distrassi un attimo dalle formiche deformi che stavo disegnando sul mio quaderno e, guardando il pavimento, notai un rivolo di liquido che passava sotto al mio banco (meno male che non arrivavo ancora con i piedi a terra!). Detti un colpetto a Gaby, seduta accanto a me, e indicai l’acqua. Lei si chinò e guardò sotto i banchi. Il liquido sgorgava dal banco di Clelia, in ultima fila, e sfociava proprio ai piedi della maestra Susana, sulle sue grosse scarpe marroni. Gaby e io iniziammo a ridere in silenzio, tappandoci la bocca con le mani, scosse dalle risate soffocate. Clelia se ne accorse e sprofondò la testa tra le braccia. La maestra Susana ci rimproverò con voce di violino, mentre cercava la sorgente di quel torrentello e la trovò nelle gocce che scendevano dalla sedia di Clelia. Con gentilezza e con tono affettuoso, la maestra Susana le disse che poteva accadere a chiunque e la portò in bagno per lavarla e cambiarla. Clelia, vergognosa, si copriva con le mani i grandi occhi tondi e neri.
Appena Clelia e la maestra uscirono dall’aula, iniziammo tutte a ridere come pazze, mentre la Guardiana asciugava il pavimento e grugniva, alla sua maniera, minacciandoci con il pugno affinché mantenessimo l’ordine. Ci sentivamo molto grandi perché non ci facevamo la pipì addosso ormai da tempo, almeno da un paio di anni, e né io né nessuna delle mie compagne avremmo ammesso il contrario. Riconosco che fin dal primo giorno nessuna di noi si era avvicinata più di tanto a Clelia. Vigeva già allora una regola non scritta – in fondo sapevamo a malapena scrivere – che imponeva l’amicizia esclusiva tra le vecchie compagne della scuola materna e una sorta di cospirazione contro le nuove. Clelia ci appariva strana, si comportava in modo così diverso da noi, forse per il fatto di essere “adottata” e ci chiedevamo se magari questo le impedisse di essere normale e uguale a noi.
A quell’età agivamo con una cattiveria selvaggia e ignoravamo tutto ciò che succedeva nel mondo, la realtà era per noi lontana, i dolori e le pene non ci appartenevano e pensavamo di poter ridere e burlarci di tutto e di tutti, senza problemi.
Ridemmo tanto di Clelia per la sua pipì, le ispezionammo tanto i bernoccoli che un giorno non tornò a scuola e non lo fece neanche la settimana successiva, né il mese seguente, né mai più. Fu scortese da parte sua andarsene senza nemmeno dire ciao o arrivederci. Aveva disprezzato la nostra piacevole compagnia e la nostra magnifica scuola, ineguagliabile ai nostri occhi e a quelli dei nostri genitori. Tutto ciò che era nostro era quanto di meglio. Nessuno parlò più di Clelia o si chiese che fine avesse fatto, e non sentivamo affatto il peso della sua scomparsa sulle nostre coscienze (ma poi, si ha una coscienza a sei anni?). Dubito che qualcuno, nella scuola, si sia preoccupato di chiedere se c’era stato qualche problema per cui Clelia se n’era andata.
Neanche i nostri genitori si informarono sul motivo del cambio di scuola e, nonostante vivessero nello stesso quartiere, quando incrociavano i genitori di Clelia iniziarono a fingere di non vederli, evitavano i loro sguardi con aria distratta, cercando qualcosa nella borsa o semplicemente guardando dall’altra parte, mettendo in pratica quei metodi che hanno gli adulti per ignorarsi senza farlo notare, fino a dimenticarsi e diventare degli estranei. Il metodo funzionava molto bene e dopo pochi giorni non si conoscevano già più. Non ci preoccupammo di avere notizie di Clelia. La dimenticammo completamente e lei scomparve dal nostro orizzonte, senza tuttavia sparire dal nostro futuro. Fino a un inverno di molti anni più tardi.
2.
Mia sorella Ana aveva cinque anni più di me, tuttavia mia madre ci vestiva con abiti identici che variavano solo nel colore. Se ci mettevamo l’una di fronte all’altra, era come guardarsi nello specchio del tempo, due versioni della stessa persona, per questo c’era chi ci chiamava le gemelle diverse e i nostri cugini ci prendevano sempre in giro.
La rivoluzione del sessantotto non aveva fatto breccia nella mia famiglia, nei suoi usi e costumi, e la mamma ignorava il nostro diritto ad avere una personalità: le stesse bambole, gli stessi vestiti, lo stesso taglio di capelli, addirittura lo stesso copriletto. Vivevamo in un ambiente familiare immutabile e statico. La domenica si faceva visita ai nonni e agli zii materni. Il sabato sera si andava a cena al solito ristorante. Durante la settimana si mantenevano orari rigorosi scanditi dal lavoro di mio padre e dagli appuntamenti di mia madre dal parrucchiere. A quell’età immaginavo che le donne lavorassero solo come maestre, parrucchiere, sarte e commesse di boutique, oppure madri, casalinghe e nonne. A volte sorridevano spensierate, altre volte diventavano nervose, come se un ritardo di mezz’ora per la cena fosse un disonore e, mentre le donne si sfiancavano, gli uomini della famiglia leggevano il giornale seduti in tutta tranquillità. Allora, per me, il tempo era un alleato, una lenta lumaca che lasciava una scia brillante al suo passaggio e mi apriva nuove porte ogni volta che avanzava un pochino. Per la mamma sembrava essere un nemico che si frapponeva tra lei e il passare dei giorni e la sua corsa affannosa contro i minuti invisibili che segnavano il passaggio delle ore, sempre più veloci e sfuggenti.
In prima elementare, durante la ricreazione, io e le mie amiche Gaby e Robertita ci dedicavamo a esplorare gli angoli più inospitali della scuola. L’edificio, enorme e vecchio, ai miei occhi era un labirinto composto da un’infinità di porte e corridoi che finivano dove arrivava la luce del giorno e sprofondavano nell’oscurità che arrestava i nostri passi come una barriera. La stanza di suor Mary Hellen – un’irlandese dalle consonanti dure e dalle guance arrossate che vendeva scapolari di Santi e Papi, immagini della Vergine e rosari di perline celesti – ben presto divenne un luogo molto piacevole e poco pericoloso per le nostre escursioni infantili, che arrivavano solo al primo livello del seminterrato.
Quando scendevamo nella stanzetta di Mary Hellen, spesso la porta era chiusa e si sentivano rumori e voci provenire dall’interno. Quando bussavamo, usciva quasi sempre Nieves, una ragazza che frequentava gli ultimi anni di superiori e che viveva nella scuola come educanda. Nieves ci dava sempre uno scappellotto di congedo quando se ne andava. Rimasta sola, Mary Hellen affacciava il volto paffutello, ci faceva entrare e ci regalava immagini sciupate della Vergine o di qualche Santo. Mi piaceva tanto un San Sebastiano trafitto dalle frecce, con la faccia di chi non sembra preoccuparsi più di tanto di ciò che gli accade, anzi, pareva godesse di quelle frecce che gli trapassavano il corpo. Nessuno si sorprendeva della presenza costante di Nieves nella stanzetta di Mary Hellen.
In una giornata fredda e umida, poco prima della scomparsa di Clelia, dopo aver lasciato la cappella dove ci insegnavano a recitare il rosario, scoppiò una confusione terribile fuori dalla scuola. Ricordo che le suore volavano con le loro tonache, in un vortice di grigi e neri, sembravano uccelli che spiegavano le loro enormi ali, mentre correvano per i corridoi chiudendo le centinaia di finestre che si affacciavano sul giardino. Anche la Guardiana uscì dalla sua guardiola, lanciandosi a tutta velocità per chiudere gli enormi cancelli di ferro decorati con lance sulla parte superiore. Il muro di cinta del giardino, sormontato da una corona di minacciosi pezzi di vetro, scoraggiava quelli che cercavano di arrampicarcisi e nessuno osò saltarlo, per quanto tentarono di abbattere il cancello di ferro lanciandosi inutilmente in gruppi contro di esso.
Lo scompiglio iniziò con un’esplosione improvvisa, seguita da sirene e urla. La visuale dalla finestra del primo piano dava un quadro dai colori grigi con lampi rossi, il tutto smorzato dal fumo che avvolgeva la scena con una foschia biancastra. Rivedo ancora l’immagine di una pietra che rompe il finestrino del filobus in calle Salta, provocando un fragore di vetri che volavano in frantumi. Un ragazzo con il cappotto marrone inciampò e cadde sui sampietrini rotti che stava lanciando contro le finestre della scuola e delle case, sebbene non arrivassero lontano. Improvvisamente, due soldati si avventarono su di lui e lo trascinarono fino a una camionetta verde. In strada, tutti quelli che correvano erano maschi e l’esercito li inseguiva. I soldati li prendevano e li portavano alla camionetta. I ragazzi calciavano l’aria e si contorcevano. In quel momento, per la prima volta, pensai a quanto era comodo essere femmina. Di certo nessuno si aspettava che andassi a tirare le pietre una volta cresciuta. Le donne non correvano in strada lanciando pietre, non c’era neanche una donna lì. Le suore ci allontanarono dalle finestre per portarci in un posto sicuro, nel secondo seminterrato. Fu in quel momento che vidi Clelia che guardava fuori, con un’espressione rapita negli occhi tondi e neri, mostrando pienamente il desiderio di voler lanciare pietre anche lei. Suor Victoria le si avvicinò. Dapprincipio cercò di convincerla con gentilezza ad andarsene via da lì, ma poi dovette trascinarla a forza nel rifugio del seminterrato. Dalla strada arrivava il trambusto delle sirene e delle urla. Eravamo spaventate e Robertita piangeva. Clelia si rannicchiò in un angolo dandoci le spalle; penso che sorridesse.
3.
Fu nel periodo in cui iniziarono le manifestazioni – che sentivo chiamare con nomi buffi come el Cordobazo (perché avveniva nella città di Córdoba) e el Rosariazo (perché i disordini erano scoppiati a Rosario) – che papà disse per la prima volta “Australia” e “Stati Uniti” e mia madre rispose subito “NO”. A causa di quelle poche parole smisero di parlarsi per molto tempo. Mia sorella Ana riassunse in una sola frase il motivo per cui mi usavano come intermediaria per passarsi il sale a tavola: «Gli adulti sono così, litigano per una sciocchezza qualsiasi e smettono di parlarsi.» Io non dubitavo della voce dell’esperienza: se lo diceva Ana, era sicuramente così. Da quel momento a casa mia nulla fu più lo stesso e scivolavamo in un silenzio accigliato che durava per tutto il pranzo. Allora smettevo di mangiare, sebbene, a parere di mia madre, non mangiassi mai molto e fossi magra ed esile come uno stuzzicadenti. In quelle occasioni, la mamma sfoderava tutte le sue nozioni di psicologia infantile e ricorreva alla parola magica: Biafra. “Diventerai come i bambini del Biafra” (non avevo idea di cosa accadesse alle bambine laggiù). Probabilmente la mamma non sapeva neanche dove fosse il Biafra, ma quanto agli effetti che aveva sull’alimentazione e sulla salute dei bambini, la sua conoscenza superava persino quella della maestra Susana. «Se non mangi, ti viene la pancia gonfia, come i bambini del Biafra», mi ripeteva. Fino a quel momento avevo creduto che la pancia si gonfiasse se si mangiava molto (come accadeva a Robertita), ma mi sbagliavo. A conferma delle sue parole, la mamma mi mostrò una foto di una rivista nella quale compariva un bambino nero con la testa enorme, gli occhi altrettanto enormi e tristi, le labbra secche, alcune mosche appoggiate sulla testa e il corpo magro con le costole che sporgevano ai lati di un ventre prominente. La foto fu sufficiente perché dessi qualche altro morso al cibo ormai freddo nel piatto, onde evitare di essere ricoverata o che mi venissero tutte le malattie vaticinate.
A volte, la sera, mia madre rimaneva sveglia fino a tardi a fumare e cucire nella sala da pranzo accanto alla cucina, che dava sul giardino. Papà sfogliava le sue carte nello studio e ogni tanto, dalla mia camera, sentivo brevi discussioni. «Ti rendi conto che, se la situazione continua così, perderemo tutto? Lo dicono i notiziari, siamo messi sempre peggio e le elezioni non ci salveranno di certo… Solo un cieco potrebbe non accorgersene.» La mamma non rispondeva, restava in silenzio e continuava con il suo lavoro, come se non le interessasse ciò che mio padre le diceva. Per quanto volessi, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. I miei genitori non si rivolgevano la parola se non per mugugnare e io continuavo a passare il sale a tavola.
Nonostante i musi lunghi, in mezzo alle turbolenze del periodo delle manifestazioni – come le chiamavano in casa –, ci fu un momento di ricongiungimento familiare e di calma che ci permise di rivivere, seppure per poco, l’armonia che regnava prima nella nostra vita. Quel giorno, papà sembrava contento e affermava che si trattava di “un grande giorno”, un giorno che avremmo ricordato per sempre e, contro ogni sua abitudine, organizzò un pranzo a cui invitò tutta la famiglia. Arrivarono il fratello di papà, zio Enzo, con la sua fidanzata, i nonni materni e la sorella di mamma, la zia Aida, con il marito Gregorio e i miei tre cugini che sembravano fotocopie di un puzzle di foto di famiglia.
Per un po’ persino la mamma si mostrò ben disposta e ricettiva. Preparò il dolce al cioccolato e il budino di pane, comprò i ravioli al pastificio e li preparò con il sugo, mentre mio padre cuoceva i polli alla brace. Prima di pranzo, la mamma indossò il vestito nuovo blu, che le stava d’incanto, e si truccò come solo lei sapeva fare. Io e mia sorella l’ammiravamo mentre si metteva le ciglia finte e l’ombretto blu sulle palpebre. Di certo mia sorella l’ammirava molto meno di quanto facessi io, logico, perché era stata figlia unica per cinque anni e aveva condiviso con i miei genitori momenti che io “non potevo neanche immaginare”.
Trascorremmo tutto il giorno a casa. Gli adulti giocavano a carte e noi cugini ci dedicammo alla nostra attività preferita: passeggiare per i tetti terrazzati che comunicavano tra loro, saltando sui muretti che li dividevano. Il gioco continuò fino a che i cani dei vicini ci tradirono mettendosi a ululare e ad abbaiare in tutte le case delle vicinanze, e il nonno ci costrinse a scendere giù. Essendo la più piccola fra i cugini, mi mandavano in cucina a procurare bibite e fette di torta, mi facevano recuperare la palla tra i cespugli e, quando mia sorella e mia cugina si annoiarono definitivamente, decisero di impiastricciarmi il viso con i vecchi trucchi di mamma che Ana collezionava. Non ci vedevo nulla di eccezionale in quella giornata che per papà era addirittura fantastica.
I miei dubbi in merito alla “giornata storica che nessuno dimenticherà mai” furono dissipati molto tardi quella sera, dopo cena. Mio padre e suo fratello, lo zio Enzo, si erano chiusi in soggiorno. Seduti sulle poltrone coi braccioli larghi tappezzate con un tessuto venato di iridescenze dorate, trascorsero tutto il pomeriggio incollati al televisore, cosa molto insolita per il papà che non aveva mai tempo né voglia di sedersi a guardare la TV. Più tardi si unirono a loro il nonno e Gregorio, il marito della zia Aida, la sorella di mamma. Nonna Maria entrava e usciva dal soggiorno portando agli uomini il mate che preparava in cucina e riportando notizie alle donne che giocavano a canasta, bevevano tè e fumavano come ciminiere. Gli uomini addirittura cenarono in soggiorno, cosa che contraddiceva le regole della casa giacché io e mia sorella non avevamo il permesso di vedere la TV mentre mangiavamo.
Era molto tardi quando, quella notte, mio padre mi alzò dal letto per portarmi con lui in soggiorno. Mi ero addormentata senza lavarmi i denti (un peccato mortale). Nella stanza non volava una mosca. La famiglia era tutta riunita e si sistemavano come potevano su sedie e poltrone. La mamma non protestava nonostante i miei cugini fossero seduti sui braccioli del divano. Di certo stava per succedere qualcosa di davvero importante visto il silenzio solenne che regnava e visto che tutti fissavano lo schermo senza battere ciglio, abbagliati dalla luce bianca del televisore. Quando papà mi fece sedere sulle sue ginocchia, davanti alla TV, quello che vidi fu una superficie bianca sullo sfondo nero. Un secondo dopo apparve una specie di bambolotto vestito di bianco che saltellava e tutti applaudirono, i miei cugini gridavano come se fossero a una partita di calcio, mia nonna si asciugava le lacrime e mio zio stappò una bottiglia di sidro di mele per festeggiare. «È una cosa importante,» mi sussurrò papà «quel signore è sulla luna.» Il mio primo istinto fu quello di strofinarmi gli occhi e di cercare la luna fuori dalla finestra. «Non lo puoi vedere, stupida» disse Ana, infastidita. «Quanto è stupida! Stupida!», ripeté. Sullo schermo apparve un uomo con la testa quadrata, seduto a una scrivania, che, attraverso la radio, parlava in un’altra lingua con il signore sulla luna e lo zio Enzo traduceva per tutti noi prima che lo facessero quelli della TV. Il signore con la testa quadrata – molto dopo seppi che era Nixon – parlava “dell’orgoglio del popolo americano e dell’umanità” per un’impresa che mirava “al bene e alla pace dell’umanità”. Insieme ad alcuni milioni di abitanti del pianeta, avevamo appena assistito a un momento storico che ci unì per qualche breve istante; l’effetto “uomo sulla luna” durò molto poco. «È un grande Paese!» esclamò lo zio Enzo. «Hanno vinto la corsa contro i russi e sono una potenza. Non esiterei ad andare lì anche domani.» Zio Enzo mise la mano sulla spalla di mio padre che era rimasto in silenzio, mentre parlando guardava mia madre. «Appena finisco l’università, noi leviamo l’ancora e partiamo» disse sicura la fidanzata dello zio. «Non sei ancora convinta?» chiese zio Enzo a mia madre «Non ti capisco.» Ricordo che a queste parole la nonna balzò in piedi come spinta da una molla e portò le tazze in cucina. La mamma, come al solito, decise di non replicare e rimase in silenzio prima di raggiungere la nonna. Il suo sguardo opaco dimostrava che stava soffrendo per la sua decisione. «È ridicolo che tu non te ne vada» disse lo zio Enzo a papà quando rimasero soli, «Il Paese sta affondando… È per il bene della tua famiglia.» La pace casalinga, recuperata quel 20 luglio, durò esattamente fino a pochi minuti dopo la mezzanotte.
©Andrea Zurlo
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