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andreazurlo

Il tocco



Racconto finalista del concorso "Le parole nel cassetto", febbraio 2019

L'aria ghiacciata entra dal finestrino. Lei sporge la testa come un cane, manca soltanto che tiri fuori la lingua.

La sento sospirare, ma non distolgo lo sguardo dalla strada.

«Il ragazzo è a casa?», domando tanto per fare conversazione.

Lei non reagisce subito. Si gratta la gamba e i bracciali dorati suonano a festa.

Guardati, non ti fai pena?

Mette la testa dentro. I suoi capelli ricci sono arruffati, sconvolti dal vento.

Chiude il finestrino e accende una sigaretta, senza chiedermi permesso. Non mi rispetta abbastanza.

«A casa ovviamente. Lo vedrai… non è facile, per niente facile», borbotta.

Pensavi di meritare altra risposta?

«Scusa, non ti ho domandato…», dice indicando la sigaretta.

«Non importa…» ma non mi ascolta.

Da quando è arrivata questa mattina a casa, non mi ha mai guardato negli occhi.

«Siamo gente perbene ma può succedere che la stanchezza ci superi…Già… forse non siamo poi così perbene…»

«Perché lo dice?»

Per quale motivo vuoi che lo dica?

«Per te, per me… forse non avrei dovuto. Ti sto portando a casa mia, capisci?»

«È un gesto che Le fa onore» rispondo senza guardarla.

«Onore? Mi sento uno schifo... Mi manca l'aria, meglio aprire il finestrino.»

L'aria fredda invade l'abitacolo e lei butta fuori la sigaretta concentrandosi sul paesaggio un'altra volta.

«Capisco, capita spesso, sono abituata…», dico a bassa voce per me.

Dovresti farti schifo…

Non abbiamo più parlato. Rompe il silenzio per chiedermi di parcheggiare a distanza dall'ingresso principale, meglio entrare da dietro.

«Se non ti dispiace…»

«Non importa», la rassicuro.

Perché dovrebbe importarti? Sei una vergogna, il nostro disonore…

La pioggia del mattino ha abbandonato il suo spirito sui muri rosa della casa che stentano ad asciugarsi sotto il debole sole nascosto dalla nebbia.

Le finestre sono chiuse. Entriamo da una porticina posteriore.

La elegante casa di campagna mostra un lussuoso deterioro, perché la morte lenta delle cose belle è più gentile. La donna cambia atteggiamento. La mia presenza a casa sua la sconvolge ancora di più. Della persona affranta che portavo in macchina non rimane nulla e nemmeno di quella timida che bussò alla mia porta per sapere se io fosse quellache dicevano.

Ancora ti sorprendi? Volevi il tappetto rosso?

Il suo gesto nervoso occupa il posto della spossatezza di prima. Alza un braccio per indicare un vassoio in porcellana su una credenza di legno scuro.

«Lì troverai quello che ti aspetta», dice con voce energica. «Vai, sali, finiamo presto prima che arrivino gli altri, per favore. È l'ultima porta in fondo al corridoio.»

Salgo la scala. Anch'io soffro e sono nervosa, ogni volta è come se fossi la prima, perché non so mai cosa mi aspetta. Arrivo in cima alla scala, guardo in giù, la donna è andata via, non riesco a chiederle il nome di suo figlio.

Sei ancora a tempo di andartene

Mi ha pagato in anticipo la metà per farmi desiderare l'altra parte, ma lei non mi conosce. Cammino fino alla porta bianca chiusa, l'unica di quel colore per differenziarla dalle altre. Non si sente nessun rumore. Busso leggermente.

Non riesci, vero? Dove hai lasciato la coscienza?

La coscienza mi accompagna sempre, ormai è una zavorra, ma me la tengo stretta. Non sono una brutta persona, comunque il mio lavoro fa rabbrividire e vergognare tutti. Secondo loro dovevo morire di fame assieme a mia figlia.

Apro la porta. Non è la prima volta, ma è sempre diverso. Di solito mi sento sostenuta dai genitori, soprattutto dalle madri che sono quelle che tutto sorreggono. Le persiane sono socchiuse e una lama flebile di luce pomeridiana penetra nella stanza. Non so il suo nome, importa?

Quando i miei occhi capiscono le ombre, lo vedo seduto su una sedia vicino alla finestra.Mi avvicino e distinguo la linea gentile ed esile della sua schiena. È completamente nudo. Non si gira a guardarmi, continua impassibile fissando il nulla, anche se faccio rumore. Osserva fra le persiane quel briciolo di paesaggio, interrotto come la sua vita.

Perché lo fai?

Mi tolgo la giacca e la maglia. Non ha un nome che possa pronunciare. Avvicinandomi sento la sua pelle allerta, il suo respiro che aumenta d'intensità. La vita è ingiusta. Per questo ho smesso di credere in Dio. Altrimenti questo ragazzo sarebbe come gli altri, altrimenti tutti avremo una possibilità.

Non essere ipocrita! Potevi rimanere sposata!

E farmi distruggere da quell'uomo…

È molto giovane e magro. Assomiglia alla madre. Forse ha una ventina d'anni. Inizia a dondolarsi dolcemente e porta le mani verso il viso, per proteggersi. Attorno a lui ha costruito un bozzolo invisibile che lo difende. I suoi ponti invalicabili impongono la distanza. Stendo una mano. Il tocco leggero di un dito provoca la contrazione della sua schiena. Il tocco più gentile e delicato è un'invasione.

Penso a sua madre. Quando eravamo in macchina mi disse che il figlio diventa violento e iperattivo e lei, lei non sa cosa fare, non ha le armi né la forza.

Ti permetti di giudicare?

Prenderà tempo e forse oggi nemmeno mi lascia avvicinare. Dalla sua bocca sboccia un lamento, un suono cupo, animalesco. Un po' mi spaventa.

Potrebbe ucciderti, qualcuno sa che sei qui? Hai lasciato tua figlia da sola?

Comunque rimane tranquillo. Forse ha capito il motivo della mia visita. Sono sicura che passi tutto il giorno in solitudine. C'è un vassoio sul tavolino nell'angolo. Di sicuro mangia in questa stanza, da solo. Un bel ragazzo lasciato a se stesso. Da quanto sarà nudo su quella sedia? E suo padre?

Non hai abbastanza con i tuoi errori e la tua vita per criticare quella altrui…

Un'ora dopo scendo le scale. Non c'è nessuno ad attendermi, nemmeno la madre a domandarmi cos'è successo, se sono riuscita ad avvicinarmi, come ha reagito. Sono soltanto più triste di prima, porto un poco di quella solitudine in me. Non guardo verso la credenza, non raccolgo i soldi.

Un piccolo atto di amore. Almeno quello, ogni tanto, me lo posso permettere.

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