(Disponible versión en español, escribir a Contactos)
(1)“Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e l’primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro,
lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”
L'INFERNO - Canto III – Divina Comedia – Dante Alighieri
(mensaje escrito sobre el dintel de la puerta del Infierno)
I
LA PUERTA
El rubí de Brasilinia. Me cuesta pensar en otra cosa. ¿Y en qué otra cosa podría pensar? En verdad, también pienso en Cleo, esa pequeña deidad erótica y algodonada. ¿Qué hará ahora Cleo? ¿Seguirá haciéndose el whisky destilando sus flores exóticas? ¿Seguirá buscando un horno a gas para suicidarse?
Me pregunto qué será de su vida para no pensar en la mía, ahora que me dejaron varada con este hueco alrededor, con este vacío.
Sin embargo, desde un principio, desde mi primer y único encuentro con la Diosa Parvati, desde ese primer mensaje, todo había sido imaginable. Y ya nada volvió a ser lo que parecía, o lo que era, a partir de aquella mañana veneciana de fines de marzo, en la Punta della Dogana (1), en una incipiente y fría primavera.
El vaporetto (2) me despertó chocando contra el muelle y, a esa hora, las siete y media de la mañana, solamente los turistas japoneses sonreían, cobijando sus flashes inquietos entre las manos. Una vez sobre el muelle, la niebla se abrió como el Mar Rojo ante Moisés, dejando paso a un ser pequeño, diminuto, oscuro y arrugado, con dos ojos negros, grandes como platos soperos, y gastados, la sonrisa despoblada, habitada sólo por dos dientes de oro solitarios que lustraba con disimulado esmero. No precisó decirme quién era: una improbable madre de Ganesh y esposa de Shiva, su collar de gruesas venas azules asomando por encima de la manta de lana que cubría el sari ligero, demasiado humana en su humilde aspecto, como si hubiera caído rodando desde algún cielo inferior hasta nuestro humano infierno.
La niebla nos regaló un hueco cobijador, rodeándonos. No puedo jurar que haya hablado, y quizá su voz pobló solamente mi mente sin existir, sin abrirse paso entre el desierto de sus encías. Me entregó un sobre con su mano áspera y ajada, mientras un flash japonés partía desde algún punto indeterminado de la niebla para capturar nuestra imagen, dejando mi espíritu en su lugar y llevándose a Parvati, elevándola hacia su cielo.
Así la perdí. Pasos pequeños sobre pies ligeros.
En tanto el sol se colaba lentamente entre los cristales de niebla, deshaciéndolos.
Si hasta ese instante me había tomado ese fugaz encuentro como una excursión necesaria para romper mi rutina, ahora me sentía invadida por un halo de misterio, de sobrenatural, aunque, entonces, yo era reluctante a la palabra "sobrenatural", gracias a los anticuerpos que generé contra mi madre, pero esa es otra historia, de la que hablaremos en su momento.
En el sobre que me entregó Parvati, escrito con caligrafía infantil e indecisa, se leía el nombre SCHWARZ. Me senté en la escalinata de la Basílica de la Madonna della Salute y abrí mi billetera, donde la foto carné del Dr. Schwarz se codeaba con la de mi madre y con la de mi abuela Justine: mi única, menguante, lejana micro-familia que perdía, o estaba por perder, otro miembro; un micro-clan en vías de extinción, desapareciendo sin dejar rastros.
Recuerdo haber acariciado la foto del Dr. Schwarz, sus contornos que se desvanecían: ahora él yacía en coma en la cama del hospital y me había enviado correspondencia con una mensajera celestial. “Ridículo”, pensé, sin poder aceptar que se tratara sólo de una broma de mal gusto.
Mi último encuentro con el Dr. Schwarz se remontaba a tres otoños atrás.
“Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e l’primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro,
lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”
L'INFERNO - Canto III
LA PORTA
I
Il rubino di Brasilinia. Faccio fatica a pensare ad altro. A cos’altro potrei pensare? A dire il vero penso anche a Cleo, quella piccola divinità erotica e cotonata. Cleo. Che farà ora? Continuerà a farsi il whisky distillando i suoi fiori esotici? Continuerà a cercare un forno a gas per suicidarsi?
Mi interrogo sulla sua vita per non pensare alla mia, ora che mi hanno piantato qui, con questo vuoto intorno, in questa solitudine.
Eppure fin dal principio, fin dal mio primo e unico incontro con la Dea Parvati, fin da quel primo messaggio, era possibile immaginare tutto . Tuttavia nulla fu più quello che sembrava, o quello che era, da quella mattinata veneziana di fine marzo, alla Punta della Dogana, in quel freddo esordio di primavera.
Mi svegliò l’urto del vaporetto contro il molo e a quell’ora, le sette e mezza di mattina, solo i turisti giapponesi sorridevano, proteggendo tra le mani i loro flash impazienti. Come scesi sul molo la nebbia si aprì, come il Mar Rosso davanti a Mosé, per lasciar passare un essere minuto, dalla pelle scura e raggrinzita, con due occhi neri, stanchi e grandi come ciotole, il sorriso abitato da due soli denti d’oro, lucidati con cura segreta. Non serviva che si presentasse : un’improbabile madre di Ganesh e sposa di Shiva, con il suo collare di grosse vene bluastre, appena nascoste dalla mantella che avvolgeva il sari leggero; troppo umana nella sua umiltà, quasi che fosse rotolata giù sulla terra da qualche cielo inferiore, calandosi fino al nostro inferno umano.
La nebbia ci avvolse, proteggendoci come in una nicchia. Non potrei giurare che avesse parlato; la sua voce, forse solo immaginata, non aveva attraversato il deserto delle sue gengive. Con mano scarna e grinzosa mi porse una busta; intanto un flash giapponese lampeggiò da qualche punto indistinto nella nebbia per cogliere la nostra immagine, lasciando lì il mio spirito e portandosi via quello di Parvati, riportandola fino al suo empireo.
Così la persi. Piccoli passi su piedi leggeri.
Intanto il sole colava con lentezza tra i cristalli di nebbia, sciogliendoli.
Se fino ad allora avevo affrontato quell’effimero incontro come una fuga necessaria dalla mia quotidianità, in quel momento mi sentivo pervasa da un alone di mistero, di soprannaturale, anche se nutrivo un’avversione per la parola "soprannaturale", grazie agli anticorpi sviluppati contro mia madre; ma questa è un’altra storia di cui parleremo a suo tempo.
Sulla busta consegnatami da Parvati c’era il nome SCHWARZ, scritto con calligrafia infantile e incerta. Mi sedetti sulla scalinata della Basilica della Madonna della Salute ed aprii il mio portafoglio; la foto tessera del Dr. Schwarz era là, tra quella di mia madre e quella di mia nonna Justine: mia unica e lontana, minuscola famiglia che stava scomparendo e che perdeva, o stava per perdere, un altro membro; un micro clan in via di estinzione, che si stava dileguando senza lasciare tracce.
Ricordo di aver accarezzato la foto del Dr. Schwarz, i suoi contorni ormai sbiaditi: ora era in coma, in un letto d’ospedale e mi aveva inviato uno messaggio tramite questa messaggera celestiale. “Ridicolo”, pensai, senza credere che potesse trattarsi solo di uno scherzo di cattivo gusto.
L’ultima volta che incontrai il Dr. Schwarz fu tre autunni fa.