Versione italiana del mio racconto pubblicata su Sdiario.
Il rumore degli spari la perseguitò come un cane rabbioso che le mordeva i talloni. Si rifugiò dietro una parete, girando l’angolo. Il sudore formava dei sentieri brillanti sulla sua pelle smorta e si gelava al contatto col freddo intenso dell’aria, tersa e piena di premonizioni.
Quando era cominciato il disastro? In quale istante preciso si era confuso il cielo con la terra? Si sedette a terra e cominciò a piagnucolare.
La sua famiglia era stata una delle ultime a convincersi che quella volta non sarebbe stata come le precedenti e aveva provato ad abbandonare il caos all’ultimo momento. Suo padre insisteva che i poveri non sarebbero arrivati a tanto, finché incrociò un’orda di gente che invadeva il quartiere chiuso dove vivevano, abbattendo recinzioni e massacrando le guardie armate; lo sciame umano rispondeva agli ordini di un leader che li incitava a saccheggiare e distruggere le abitazioni al grido di «Il pane è nostro!».
Lei stava tornando a casa quando si rese conto di quello che era successo. Suo padre l’aveva avvertita per telefono di non tornare, in seguito l’avrebbero recuperata, in qualche modo sarebbero scappati e sarebbe tornata la calma, la vita di sempre, senza angosce, forse da un’altra parte, lontano da lì.
La città fu divisa a metà e, per qualche sfortunato motivo genetico, lei fu l’unica a restare dalla parte sbagliata, mentre il resto della sua famiglia si rifugiò nella metà che l’esercito proteggeva dalle bande di assaltatori famelici, da quelle persone condannate a una povertà perenne, ereditata come un male incurabile, e che i governi avevano provveduto a preservare come fonte inesauribile di voti.
Con il terrore annidato nelle viscere, trascorse due notti nascosta dietro pile fumanti di oggetti irriconoscibili e pneumatici bruciati dalle «bande di emarginati», come venivano chiamati nei telegiornali. Si trascinò a terra per sporcarsi e fare in modo che i suoi vestiti alla moda passassero inosservati.
La fame e la paura la obbligarono a uscire dal suo nascondiglio, la batteria scarica del suo cellulare decretò il suo definitivo isolamento e la morte della speranza di essere salvata; adesso entrare nella parte protetta della città era diventato un sogno irrealizzabile.
Sprovvista di alternative, si avvicinò a un gruppo di persone che formavano il seguito di un Predicatore magro, brutto e spregiudicato, con le labbra attaccate alle gengive orfane di denti. Un rivoluzionario senza rivoluzione che recitava il «Pane Nostrum» e predicava la venuta della guerra del pane e la liberazione dei poveri dall’oppressione dei ricchi, per scivolare nell’oppressione dei poveri stessi. Gli uomini adorano le caste.
Armati di bastoni e qualcuno di coltelli, formavano gruppi di sei o otto membri e distruggevano tutto quello che restava del saccheggio precedente, davanti agli sguardi increduli di chi non aveva più niente, in un circolo vizioso destinato a imporre la povertà e l’inerzia, che paralizzava la possibilità di aspirare a uscire da quel fango e degrado, da quello stato di improduttività e miseria.
Ci abituiamo a tutto, pensava lei e cercava di imbastire parole per non abbrutirsi del tutto, per distinguersi dalle bande di fuorilegge, mentre coltivava in segreto la sua ostilità verso l’obbedienza cieca al Predicatore di disgrazie e conservava gelosamente il sogno di superare la frontiera e fuggire da quell’incubo.
«Abaco, Acacia, Antico, Batteri, Bombe, Bombardamento… Sparatoria». Le parole la restituivano alla realtà. Gli spari sfregiavano l’oscurità con scie di luce rossa. La notte era una lunga veglia, la paura s’impossessava dei pensieri e lei si rifugiava in se stessa, nascosta in qualche angolino.
Doveva ancora abituarsi alla nuova condizione di povera, la pancia vuota le causava una smorfia di dolore ogni volta che il suo stomaco brontolava. Io non sono così, si diceva mentre recitava in un Rosario «Aristotele, Aristofane, Nietzsche, Platone, Socrate…».
Il Predicatore incitava alla conquista di nuovi quartieri una volta finito il pane; dovevano continuare a lottare contro i ricchi, vendicarsi dei meno ricchi e dei meno poveri. Doveva regnare lo stesso degrado per tutti.
La massa umana avanzò per le strade; la trascinavano e lei, debilitata, non riusciva a opporsi. Un bambino abbandonato e coperto di sporcizia, come tutti gli altri, la prese per mano.
Lei li sentiva gridare «Il pane è nostro!», mentre recitava dentro di sé «Baudelaire, Balzac, Byron, Borges…». A cosa le serviva?
Il vetro delle porte dell’ipermercato esplose sotto i colpi. Niente e nessuno li fermò. Calpestarono l’unico uomo che si era messo in mezzo. Dopo pochi istanti la gente scappava già carica di cibo, televisori, elettrodomestici, carne per i figli, cibo per cani, bottiglie di liquore e prosciutti.
Lei stupì se stessa mentre scappava condotta sempre dalla mano del suo piccolo accompagnatore, entrambi portavano un filone di pane sotto il braccio e una bottiglia di latte in mano. Si guardarono per un attimo con un sorriso e cominciarono a correre in mezzo alla marea di gente spaventata dall’arrivo della polizia. Fu allora che lei smise di imbastire parole e si unì con il suo nuovo amico al coro generale: «Pane Nostrum».
©Andrea Zurlo ©Foto di copertina di Viviana Gabrini
Traduzione a cura di Agata Sapienza
La versione spagnola è stata pubblicata nella rivista colombiana “Cronopio” (2016) e la versione italiana nell’Antologia collettiva “Storie, sostantivo femminile plurale”(Nardini Editore, 2017)
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